Lunedì 3 novembre 2025

Per chi non ne ha la passione ieri era “solo” il giorno dei defunti, per chi invece ama la corsa ieri era il giorno della maratona di New York.
Correvano in 55 mila, mentre oltre un milione di persone era lungo le strade, non tanto a tifare, ma a fare festa al passaggio dei corridori: ci sono orchestrine, piccoli spettacoli, e, certo anche tanti a incitare soprattutto i corridori più affaticati.
Alla partenza della gara, raccontano in tanti, per la gran mole di corridori, il ponte sospeso di Verrazzano ondeggia entrando in sincrono con i seppur diversi passi degli atleti.
Una corsa che è una festa grandissima, una vera americanata!

Il 4 novembre del 2012 anch’io, con una quindicina di amici, ero la per correre. Ma la gara fu annullata, ci fu comunicato appena scesi dall’aereo, il giorno prima della partenza; tutto era pronto per quella pacifica e colorata invasione. Ma la politica vinse e la gara per quell’unico anno fu cancellata.
Così non potei correre su quelle strade.
Forse per questo, ogni prima domenica di novembre mi si riapre la ferita di una bellezza mancata.

Di ogni cosa nella vita resta il segno, non sempre dolce, eppure di ogni istante non possiamo fare a meno, noi siamo i nostri passi. E le fatiche, come le gioie, sono lì a ricordarci che cosa vogliamo davvero.
E sapere cosa vogliamo è l’inizio della preghiera.


dalla liturgia ambrosiana:

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò. Se mi amate, osserverete i miei comandamenti».

Vangelo secondo Giovanni 14,12-15.

Se il credere consente di fare opere più grandi di quelle di Gesù allora è davvero decisivo che abbiamo a riconoscere la nostra poca fede. Nessuno di coloro che io conosco è mai riuscito a fare nessuno dei miracoli che Gesù ha fatto, nemmeno il più piccolo e “inutile”, come trasformare l’acqua in vino.
Avere la percezione della nostra piccolezza e della nostra poca fede non è occasione per sminuirci e, peggio, per deprimerci, ma per ricordare il desiderio totale che abbiamo riconosciuto in noi quando ci siamo scoperti amati e prescelti: il bisogno di dare tutto a Colui che ci ama è la cosa più vera e grande della nostra vita, spetta a noi custodirla come un dono prezioso.

Capita anche a me di percepire come una lontananza quando, specie nella liturgia, si domanda il dono della fede; eppure capisco che sempre più è questa la Grazia da chiedere, non solo per poter vivere da cristiani ma soprattutto per poter vivere una pienezza che nell’incontro abbiamo percepito come assolutamente desiderabile: solo chi vive di fede vive una pienezza di vita e di letizia.



Catechesi in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate


Cari fratelli e sorelle, pellegrini nella fede e rappresentanti delle diverse tradizioni religiose! Buongiorno, benvenuti!

Al centro della riflessione odierna, in questa Udienza Generale dedicata al dialogo interreligioso, desidero porre le parole del Signore Gesù alla donna samaritana: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,24). Nel Vangelo, questo incontro rivela l’essenza dell’autentico dialogo religioso: uno scambio che si instaura quando le persone si aprono l’una all’altra con sincerità, ascolto attento e arricchimento reciproco. È un dialogo nato dalla sete: la sete di Dio per il cuore umano e la sete umana di Dio. Al pozzo di Sicar, Gesù supera le barriere di cultura, di genere e di religione. Invita la donna samaritana a una nuova comprensione del culto, che non è limitato a un luogo particolare – “né su questa montagna né a Gerusalemme” – ma si realizza in Spirito e verità. Questo momento coglie il nucleo stesso del dialogo interreligioso: la scoperta della presenza di Dio al di là di ogni confine e l’invito a cercarlo insieme con riverenza e umiltà.

Sessant’anni fa, il 28 ottobre 1965, il Concilio Vaticano II, con la promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate, aprì un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale. Questo luminoso Documento ci insegna a incontrare i seguaci di altre religioni non come estranei, ma come compagni di viaggio sulla via della verità; a onorare le differenze affermando la nostra comune umanità; e a discernere, in ogni ricerca religiosa sincera, un riflesso dell’unico Mistero divino che abbraccia tutta la creazione.

In particolare, non va dimenticato che il primo orientamento di Nostra aetate fu verso il mondo ebraico, con cui San Giovanni XXIII intese rifondare il rapporto originario. Per la prima volta nella storia della Chiesa doveva così prendere forma un trattato dottrinale sulle radici ebraiche del cristianesimo, che sul piano biblico e teologico rappresentasse un punto di non ritorno. «Il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (NA, 4). Così, la Chiesa, «memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (ibid.). Da allora, tutti i miei predecessori hanno condannato l’antisemitismo con parole chiare. E così anch’io confermo che la Chiesa non tollera l’antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso.

Oggi possiamo guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni. Ciò non è dovuto solo allo sforzo umano, ma all’assistenza del nostro Dio che, secondo la convinzione cristiana, è in sé stesso dialogo. Non possiamo negare che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto.

Lo spirito della Nostra aetate continua a illuminare il cammino della Chiesa. Essa riconosce che tutte le religioni possono riflettere «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (n. 2) e cercano risposte ai grandi misteri dell’esistenza umana, così che il dialogo deve essere non solo intellettuale, ma profondamente spirituale. La Dichiarazione invita tutti i cattolici – vescovi, clero, persone consacrate e fedeli laici – a coinvolgersi sinceramente nel dialogo e nella collaborazione con i seguaci di altre religioni, riconoscendo e promuovendo tutto ciò che è buono, vero e santo nelle loro tradizioni (cfr ibid.). Questo è oggi necessario praticamente in ogni città del mondo dove, a motivo della mobilità umana, le nostre diversità spirituali e di appartenenza sono chiamate a incontrarsi e a convivere fraternamente. Nostra aetate ci ricorda che il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano (cfr NA, 5).

Quindi, cari fratelli e sorelle, a sessant’anni dalla Nostra aetate, possiamo chiederci: cosa possiamo fare insieme? La risposta è semplice: agiamo insieme. Più che mai, il nostro mondo ha bisogno della nostra unità, della nostra amicizia e della nostra collaborazione. Ciascuna delle nostre religioni può contribuire ad alleviare le sofferenze umane e a prendersi cura della nostra casa comune, il nostro pianeta Terra. Le nostre rispettive tradizioni insegnano la verità, la compassione, la riconciliazione, la giustizia e la pace. Dobbiamo riaffermare il servizio all’umanità, in ogni momento. Insieme, dobbiamo essere vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall’estremismo. Dobbiamo anche affrontare lo sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale, perché, se concepita in alternativa all’umano, essa può gravemente violarne l’infinita dignità e neutralizzarne le fondamentali responsabilità. Le nostre tradizioni hanno un immenso contributo da dare per l’umanizzazione della tecnica e quindi per ispirare la sua regolazione, a protezione dei diritti umani fondamentali.

Come tutti sappiamo, le nostre religioni insegnano che la pace inizia nel cuore dell’uomo. In questo senso, la religione può svolgere un ruolo fondamentale. Dobbiamo riportare la speranza nelle nostre vite personali, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri villaggi, nei nostri Paesi e nel nostro mondo. Questa speranza si fonda sulle nostre convinzioni religiose, sulla convinzione che un mondo nuovo sia possibile.

Nostra aetate, sessant’anni fa, ha portato speranza al mondo del secondo dopoguerra. Oggi siamo chiamati a rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato. Collaboriamo, perché se siamo uniti tutto è possibile. Facciamo in modo che nulla ci divida. E in questo spirito, desidero esprimere ancora una volta la mia gratitudine per la vostra presenza e la vostra amicizia. Trasmettiamo questo spirito di amicizia e collaborazione anche alla generazione futura, perché è il vero pilastro del dialogo.

E ora, fermiamoci un momento in preghiera silenziosa: la preghiera ha il potere di trasformare i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni.


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