La forma conta.
Eravamo nella seconda parte del pomeriggio, un momento reso grigio nero dalla pioggia, io ero nel mio studio a parlare con delle persone e la discussione era vivace e bella.
Ad un certo punto mi rendo conto che è l’ora dell’”orda”, il momento in cui i bambini finiscono il catechismo e, come prigionieri liberati dopo anni di galera, corrono a perdifiato per il corridoio del primo piano e si lanciano dalle scale per scendere. Quindi erano quasi le sei.
Passato il primo momento il rumore comincia a scemare e, ad un certo punto, una voce infantile, tanto acuta di tono quanto alta di volume, comincia a gridare, in maniera evidentemente lieta e contenta: “Ciao, amici miei!”.
E questo saluto si è ripetuto diverse volte.
Mi sono, anche se per un istante, perso, ho perso il filo delle cose che ci stavamo dicendo con chi era con me. Quel bambino urlante mi aveva affascinato.
A chi dei miei amici posso gridare “mio”?
Chi posso salutare gridando?
E quando posso essere lieto di un distacco se non custodendo in me la certezza che domani ci rivedremo?
Quel ragazzino urlante mi ha rimesso davanti al fatto che anche un semplice saluto, fatto spesso più per educazione che per stupore, può mostrare il cuore con cui vivo.
dalla liturgia ambrosiana:
Giovedì della I° domenica dopo la Dedicazione
In quel tempo. Pietro disse al Signore Gesù: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».
Vangelo secondo Matteo 19, 27-29.
“Che cosa dunque ne avremo?”
Come è facile cadere nella logica di san Pietro: usare la compagnia con Gesù per accampare dei diritti, per potersi aspettare qualcosa di più.
E quanto è facile che questo reciproco appartenersi porti all’equivoco per cui al dare deve sempre corrispondere un avere di almeno pari valore.
Ma Gesù non si scandalizza nemmeno di questa richiesta, sta alla logica di Pietro, e anzi la estremizza: “quello che hai dato ti metterà al di sopra di tutti, li giudicherai, e avrai il centuplo di ciò che hai donato”.
Non vi sentireste voi in imbarazzo per le parole di Cristo? Questa misericordia non vi farebbe sentire piccoli piccoli?
Ma soprattutto le parole di Gesù sono lo strumento per renderci conto che quello che riceviamo, già ora, è molto di più di quello che doniamo.
Scuola di Comunità 2025/2026

«Cristo, nuovo principio
di conoscenza e di azione»
Qui potete trovare il testo della Giornata di inizio anno:
https://www.clonline.org/it/pubblicazioni/libretti/giornata-inizio-anno-2025
2. DALL’APPARTENENZA, UN GIUDIZIO NUOVO
… Ti chiederei allora di aiutarci a comprendere meglio il significato della parola «giudizio», perché è una parola
su cui ci siamo soffermati più volte durante questo anno.
Mettiamo a tema la conseguenza diretta dell’appartenere: si comincia a guardare tutto dallo stesso punto di vista. Sembra una cosa logica e naturale ma non lo è più che tanto: siamo, come desiderio, di Gesù ma poi quanto è lontana la concretezza di questo desiderio quando facciamo le scelte di tutti i giorni!
Giudicare è davvero un passo che abbiamo bisogno di rimettere a tema per poterci accorgere della grandezza dell’incontro che ci è accaduto di compiere.
Buon giovedì,
donC

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