Lunedì 8 settembre 2025

Buona ripresa!

Tante cose ho visto, e tante ne ho apprezzate la scorsa settimana. Eppure tutto porta a quelle due foglioline che vedete come immagine del post di oggi.
Ero solo in una caletta riparata e, certamente, isolata; l’avevo raggiunta dopo una decina di minuti di cammino.
E lì mi “godevo” un pò di sole, ma soprattutto un bel libro.
Ad un certo punto, ragionando su certi casi della vita, mi sono chiesto: “ma si può essere davvero soli?” e le risposte viravano dal sì al no con la facilità dei miei pensieri. Finché nella sabbia, immediatamente al mio fianco, ho visto quel germoglio.
Lui era lì prima di me, e io credevo di essere solo, era sbucato dove non sarebbe sensato aspettarti una vita, sabbia e acqua salata, eppure c’era. Ero io quello che si era intromesso.
E mi ha commosso perché tutta la mia presunzione mi aveva fatto usare di me come misura mentre la misura vera è quella della Realtà, della Vita.

Credo sia quello che è accaduto ieri in piazza san Pietro: due ragazzi che diventano santi, a dispetto di tutte le paure e di tutti i pessimismi: Gesù per affascinare e per esserci non ha bisogno di essere invitato da nessuno, è già lì, al centro della vita.


dalla liturgia ambrosiana:

Nelle Chiese d’Oriente e d’Occidente si celebra oggi la nascita di Maria, la madre del Signore, come l’aurora che annuncia il Giorno nuovo, il Giorno della nostra salvezza. La data dell’8 settembre è quella della dedicazione della basilica costruita nel secolo V sul posto della Piscina Probatica (Gv 5, 1-9), a Gerusalemme, presso il tempio, dove la tradizione localizzava la casa di Anna e Gioacchino, genitori della Vergine, oggi basilica di S. Anna. La festa si diffuse nel VI secolo in tutto l’Oriente e fu introdotta a Roma dal papa siriaco Sergio I († 701) che la solennizzò con una processione dalla chiesa di S. Adriano al Foro alla basilica Liberiana, divenuta poi molto popolare nel Medioevo, quando la festa ebbe anche una vigilia e un’ottava. In oriente, questa festa apre l’anno liturgico bizantino.
A Milano, che ha il suo duomo dedicato a Maria nascente, l’8 settembre inizia tradizionalmente l’anno pastorale, come attingendo alla fedeltà di un inizio, antico e sempre nuovo, la gioia di un annuncio di grazia dal quale soltanto può prendere avvio e orientamento buono e speranza ogni nostra iniziativa.

Così fu generato il Signore Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa Dio con noi.

Vangelo secondo Matteo 1, 18-23.

La liturgia odierna, per il rito ambrosiano, segna l’inizio di un anno, di un tempo segnato dalla amicizia con Gesù maestro. E questo tempo futuro lo comincia guardando a qualcosa di già accaduto, alla nascita di Maria, per ribadire che la storia di Gesù è dentro la storia degli uomini, non è un asteroide che piove dal cielo.
Una storia che inizia nel Mistero: una ragazza che “si trova” incinta. E questo è il Mistero che abbraccia tutti noi: si è affacciato alla nostra vita senza chiederci il permesso, si è mostrato sulla nostra strada senza avvertirci e senza nemmeno chiederci se la cosa ci andava: siamo stati scelti, come Maria.
Questo è, per me, il vero senso di quel “Dio con noi”.
Non siamo noi che camminiamo dietro a Gesù, è Lui che decide di manifestarsi attraverso la nostra vita. Dobbiamo solo vivere. E Lui accade.


Giubileo 2025.
Gesù Cristo nostra speranza.
III. La Pasqua di Gesù.
5. La crocifissione. «Ho sete» (Gv 19,28)


Fratelli e sorelle,
nel cuore del racconto della passione, nel momento più luminoso e insieme più tenebroso della vita di Gesù, il Vangelo di Giovanni ci consegna due parole che racchiudono un mistero immenso: «Ho sete» (19,28), e subito dopo: «È compiuto» (19,30). Parole ultime, ma cariche di una vita intera, che svelano il senso di tutta l’esistenza del Figlio di Dio. Sulla croce, Gesù non appare come un eroe vittorioso, ma come un mendicante d’amore. Non proclama, non condanna, non si difende. Chiede, umilmente, ciò che da solo non può in alcun modo darsi.

La sete del Crocifisso non è soltanto il bisogno fisiologico di un corpo straziato. È anche, e soprattutto, espressione di un desiderio profondo: quello di amore, di relazione, di comunione. È il grido silenzioso di un Dio che, avendo voluto condividere tutto della nostra condizione umana, si lascia attraversare anche da questa sete. Un Dio che non si vergogna di mendicare un sorso, perché in quel gesto ci dice che l’amore, per essere vero, deve anche imparare a chiedere e non solo a dare.

Ho sete, dice Gesù, e in questo modo manifesta la sua umanità e anche la nostra. Nessuno di noi può bastare a sé stesso. Nessuno può salvarsi da solo. La vita si “compie” non quando siamo forti, ma quando impariamo a ricevere. E proprio in quel momento, dopo aver ricevuto da mani estranee una spugna imbevuta di aceto, Gesù proclama: È compiuto. L’amore si è fatto bisognoso, e proprio per questo ha portato a termine la sua opera.

Questo è il paradosso cristiano: Dio salva non facendo, ma lasciandosi fare. Non vincendo il male con la forza, ma accettando fino in fondo la debolezza dell’amore. Sulla croce, Gesù ci insegna che l’uomo non si realizza nel potere, ma nell’apertura fiduciosa all’altro, persino quando ci è ostile e nemico. La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno e nel saperlo liberamente esprimere.

Il compimento della nostra umanità nel disegno di Dio non è un atto di forza, ma un gesto di fiducia. Gesù non salva con un colpo di scena, ma chiedendo qualcosa che da solo non può darsi. E qui si apre una porta sulla vera speranza: se anche il Figlio di Dio ha scelto di non bastare a sé stesso, allora anche la nostra sete – di amore, di senso, di giustizia – non è un segno di fallimento, ma di verità.

Questa verità, apparentemente così semplice, è difficile da accogliere. Viviamo in un tempo che premia l’autosufficienza, l’efficienza, la prestazione. Eppure, il Vangelo ci mostra che la misura della nostra umanità non è data da ciò che possiamo conquistare, ma dalla capacità di lasciarci amare e, quando serve, anche aiutare.

Gesù ci salva mostrandoci che chiedere non è indegno, ma liberante. È la via per uscire dal nascondimento del peccato, per rientrare nello spazio della comunione. Fin dall’inizio, il peccato ha generato vergogna. Ma il perdono, quello vero, nasce quando possiamo guardare in faccia il nostro bisogno e non temere più di essere rifiutati.

La sete di Gesù sulla croce è allora anche la nostra. È il grido dell’umanità ferita che cerca ancora acqua viva. E questa sete non ci allontana da Dio, piuttosto ci unisce a Lui. Se abbiamo il coraggio di riconoscerla, possiamo scoprire che anche la nostra fragilità è un ponte verso il cielo. Proprio nel chiedere – non nel possedere – si apre una via di libertà perché smettiamo di pretendere di bastare a noi stessi.

Nella fraternità, nella vita semplice, nell’arte di domandare senza vergogna e di offrire senza calcolo, si nasconde una gioia che il mondo non conosce. Una gioia che ci restituisce alla verità originaria del nostro essere: siamo creature fatte per donare e ricevere l’amore.

Cari fratelli e sorelle, nella sete di Cristo possiamo riconoscere tutta la nostra sete. E imparare che non c’è nulla di più umano, nulla di più divino, del saper dire: ho bisogno. Non temiamo di chiedere, soprattutto quando ci sembra di non meritarlo. Non vergogniamoci di tendere la mano. È proprio lì, in quel gesto umile, che si nasconde la salvezza.


Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *