Il giovedì a pranzo facciamo adorazione, anzi, faccio adorazione; e la faccio come piace a me, in silenzio e senza testi per meditare o canti ma solo silenzio e sguardi. Ieri era il terzo giovedì di questa proposta così essenziale: un’ora secca di silenzio, e io i giovedì precedenti me li sono proprio goduti.
Ieri molto meno.
In quattro, in diversi momenti e durante la mia preghiera, sono venuti a chiedermi di confessarsi. E io ribollivo.
Possibile che non si possa vedere un prete in chiesa senza che a qualcuno scatti la voglia impellente di confessarsi?
So già che qualcuno sta aspettando di potermi scrivere: “goditela, che almeno a te capita che chiedano la Confessione”. Credo che chi desiderasse dirmi questo abbia ragioni da vendere, io non ho mai confessato così tanti come in questi anni di università, ma vi chiedo solo la carità di aspettare un attimo prima di dire quelle parole.
Non ribollivo per l’interruzione, non sono un mistico che va in estasi, e nemmeno perchè non avessi voglia di donare una cosa che non è mia, non potrei mai; ribollivo perché mi sembrava che quelle richieste non tenessero conto della natura del Sacramento. L’ho scritto altre volte: per tanti il sacramento della Confessione è un fatto personale e quindi da trattare come il Carrefour: ci vai quando vuoi, è sempre aperto, giorno e notte, disponibile e pronto, magari anche con degli sconti e delle offerte speciali.
Solo che così la Confessione si riduce ad essere una “pratica”, qualcosa che si fa, mentre invece chi fa sono il buon Dio e la Chiesa
Un gesto che cambiando te cambia le sorti del mondo.
Ribollivo perché avevo la sensazione che non fosse chiara la portata del termine Sacramento.
dalla liturgia ambrosiana:
Venerdì della VII° settimana dopo il martirio del Precursore
Memoria di sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e dottore della Chiesa
Ignazio (“detto anche Teoforo”, così si chiama in tutte le sue lettere), vissuto ad Antiochia di Siria sotto l’imperatore Traiano (98-117), fu il terzo vescovo della comunità cristiana di Antiochia, dopo Simon Pietro ed Evodio. Di lui narra Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica (III,36), ed è l’unica fonte diretta che abbiamo della sua vita, insieme alle notizie che provengono dalla Lettera di Policarpo ai Filippesi .
Arrestato come cristiano durante una persecuzione romana del cristianesimo, ritenuto “superstitio illicita”, negli anni tra il 107 e il 110 fu condannato ad essere ucciso dalle bestie a Roma. Nel viaggio sotto scorta militare che, insieme ad altri cristiani condannati, percorse per raggiungere il luogo dell’esecuzione, fece anche lunghe soste.
A Smirne venne accolto dal vescovo Policarpo e da una numerosa comunità di cristiani. Accorrevano a incontrarlo anche membri di altre comunità dell’Asia minore (Efeso, Magnesia, Tralli) che, non trovandosi sul percorso del suo viaggio ultimo, vollero comunque accomiatarsi da un vescovo molto stimato e amato. Da Smirne scrisse lettere di commiato alle Chiese di cui aveva accolto la delegazione e alla Chiesa di Roma: questa è l’unica lettera datata, il giorno 24 agosto. Dopo Smirne il drappello passò a Troade, da dove Ignazio scrisse alle chiese di Filadelfia e di Smirne, e al suo vescovo Policarpo. Successivamente dovette passare da Filippi, come testimonia la lettera scritta posteriormente da Policarpo ai Filippesi, per imbarcarsi poi a Durazzo per l’Italia. Ireneo (180 ca.) e Origene (235 ca.) testimoniano che effettivamente subì il martirio, in Roma, consegnato alle fauci dei leoni.
Le sette lettere scritte in questo viaggio infamante, in realtà trasformato da lui in corteo trionfale, sono espresse in stile molto acceso e diretto e testimoniano la tenera e vigorosa passione di questo umilissimo vescovo per il Signore Gesù Cristo, e per l’unità delle chiese: “uomo fatto per l’unità” egli si autodefinisce. Soprattutto la Lettera ai Romani rivela l’animo di questo appassionato e mitissimo discepolo della prima generazione apostolica. Alla fine del primo secolo di vita della Chiesa, tali lettere sono al tempo stesso testimonianza preziosa sulla vita della più antica sede della Chiesa apostolica, Antiochia; sulla fede cristologica ed eccelsiologica; sulle crisi derivanti dagli influssi gnostici, giudaizzanti, docetisti; e sulla spiritualità del martirio, strettamente collegata al senso dell’eucaristia.
Non per niente Ignazio che, ritenendosi non ancora diventato veramente discepolo (Ai Tralliani, V.2), anelava a “imitare la passione del suo Dio” (Ai Romani, VI.3), si definiva “frumento di Dio”, destinato ad essere stritolato dalle bestie per diventare pane puro di Cristo (Ai Romani, IV.1).
In quel tempo. Il Signore Gesù disse a Pietro: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte».
Vangelo secondo Luca 22, 31-33.
Gesù lascia che Satana “vagli” i discepoli, lascia che coloro che vogliono essere suoi siano provati nella loro decisione. Perché nel gesto del vagliare è implicita da una parte l’idea del trattenere quello che vale e dall’altra c’è l’idea della libertà che per essere vera non deve dare nulla per scontato.
E Gesù cosa fa? Prega perché la fede di Pietro e dei suoi amici non venga meno, non prega perché i suoi resistano, non prega perchè possano evitare la prova ma perchè continuino a credere che il bene della vita viene dall’incontro che hanno fatto. Per Gesù il bene della vita, a differenza mia, non è che le cose vadano bene ma è il vivere quello che si è incontrato.
Se fossimo certi di questa compagnia orante di Gesù non saremmo anche noi, come Pietro, pronti a dare tutto?
Scuola di Comunità 2025/2026

«Cristo, nuovo principio
di conoscenza e di azione»
Qui potete trovare il testo della Giornata di inizio anno:
https://www.clonline.org/it/pubblicazioni/libretti/giornata-inizio-anno-2025
Perché invece se ne andò «triste»? Perché gli costava andarsene: veramente aveva riconosciuto Cristo nella sua unicità, ma questo non era bastato; era troppo forte l’attaccamento che aveva verso i suoi beni, i suoi progetti, il frutto del suo lavoro, per abbandonare tutto e seguirLo
Davide Prosperi sta riprendendo l’episodio del giovane ricco, sta parlando in particolare del gesto dell’andarsene dopo la richiesta esplicita di dare tutto. L’uomo che non osa dare tutto se ne va perché il suo cuore è attaccato ancora alla sua misura, c’è il desiderio vero e sincero dell’amicizia con Gesù ma non c’è la volontà di lasciarsi andare in balia di un’appartenenza: è mille volte più facile aderire che appartenere.
Buon venerdì,
donC

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