INDICE
- Premessa
- Introduzione
- Riti di Introduzione
- Liturgia della Parola
- Liturgia Eucaristica
- Riti di Comunione
- Riti Conclusivi
- Conclusioni
- Bibliografia per approfondire
Liturgia Eucaristica
Presentazione dei doni
“Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16)
Comincia così: con il nostro offrire la povertà che siamo e che abbiamo, il miracolo di Dio che dà sé stesso per la nostra salvezza. Ma perché proprio questo gesto? Credo siano da osservare due attenzioni: Dio ha bisogno del nostro sì per entrare nella nostra vita, per darsi a noi, e questa è la premessa necessaria al Suo dono. Secondo, Gesù si rende presente solo dentro dei segni concreti e tangibili, non è un’idea, uno strano fenomeno, Lui vuole essere materia che può essere toccata e vista come fece Tommaso infilando le dita nelle piaghe del Suo corpo risorto.
Se non è stato compiuto durante l’antifona dopo il Vangelo, il gesto che inizia la liturgia eucaristica è quello della preparazione dell’altare, da parte dei ministranti o da parte del sacerdote stesso. Con alcune sottolineature: nelle celebrazioni più importanti può essere fatta una piccola processione offertoriale, infatti nella Chiesa delle origini il pane e il vino erano donati sul momento dalle persone che ne portavano dalle proprie case, era un gesto quindi di offerta e di condivisione, frutto di uno slancio personale. In questo modo si rendeva evidente l’idea del banchetto e della partecipazione di ognuno alla celebrazione della cena del Signore.
Spesso in questa processione delle offerte si portano anche altre cose, simboli del desiderio di risposta che i credenti danno al dono che Gesù fa di sé. Questi doni però non andrebbero mai messi sull’altare, infatti la mensa non è propriamente un luogo ma è il segno di una Presenza: lì Cristo diventa vittima e altare del sacrificio, per questo quando il Vescovo lo consacra mette delle reliquie di santi dentro e al centro dell’altare, immediatamente “sotto” a dove Gesù si rende presente. Il luogo del sacrifico di Gesù non è altro che il luogo della compagnia di coloro che sono i suoi amici.
Che dono grande il fatto che Gesù ci dia sé stesso senza chiedere che noi facciamo altrettanto! Sto arrivando! Bene infatti che non sapremmo dire un sì così impegnativo e completo; Gesù si accontenta di ciò che sappiamo produrre, poi sarà il Padre a raccogliere il nostro dono e a rendercelo pane di vita eterna.
L’atteggiamento più giusto per vivere questo momento della Messa credo possa essere quello del ragazzino che si fa avanti titubante per offrire quei cinque pani e due pesci: Sto arrivando! Che ne verrà qualcosa di grande e per questo gesto passa alla storia: per il suo piccolo-grande dono.
Normalmente è a questo punto della celebrazione che si fa la raccolta delle offerte, raccogliere dei soldi ha lo stesso significato dell’offrire il pane e il vino per l’altare: è una risposta grata che si tramuta in dono. Sarà per questa mancanza di gratitudine che spesso le persone si limitano a dare qualche spicciolo, “per contribuire alle spese della chiesa”?
Poi il sacerdote che presiede offre a Dio il pane e il vino perché siano “offerta gradita”, ed è importante che sia così, non dobbiamo pensare che Dio si accontenti di quello che abbiamo in giro, la grandezza del nostro sì e del nostro cuore è sempre, con chiunque , resa visibile dalla cura e dalla ricercatezza del dono, anche se si tratta di una cosa piccola un dono non può essere scontato o “buttato la”, sarebbe segno del contrario dell’amore. Dentro questa offerta si compie un gesto particolare: nel calice del vino vengono versate poche gocce d’acqua prima di offrirlo al Padre, come mai? Diversi sono i significati che vengono attribuiti a questo gesto, a titolo di esempio ve ne riporto tre ma a me corrisponde di più il primo: il sangue è il segno della vita ma l’acqua che vi si aggiunge è ciò che permette di conservarla, e sono solo poche le gocce di acqua nel vino perché altrimenti confonderemmo ciò che nutre la vita con ciò che vive. Una seconda lettura della mescolanza tra vino e acqua è tratta dalla simbologia della Croce: dal fianco trafitto di Gesù escono sangue e acqua, che danno poi origine alla Chiesa e ai sacramenti. Una terza lettura del gesto liturgico è data dalla sottolineatura dei Padri della Chiesa che sostenevano che questo era un modo per indicarci che in Gesù la natura umana e quella divina sono presenti insieme.
Terminato il gesto della raccolta della presentazione delle offerte il sacerdote compie un profondo inchino all’altare e, nel rito romano, lava le mani. Certe volte mentre faccio l’inchino penso alle mie mani che di li a poco sosterranno Gesù … allora vorrei lavarle mille volte e vorrei anche lavarmi io, dentro e fuori, perché è uno stupore e una meraviglia che Lui decida di affidarsi alle mie povere mani.
L’orazione sulle offerte termina questa prima parte della liturgia Eucaristica. Perché si fa questa preghiera se abbiamo appena offerto a Dio i nostri doni? La ragione è presto detta ed è in bella vista a chiunque: la preghiera è tutta un “noi”, sacerdote e fedeli, qui nel donare i loro doni, sono tutti insieme, il gesto del mio dono diventa l’origine di un popolo, nasce nuovamente un noi. E il rispondere Amen deve essere quanto mai convinto perché questo è l’inizio di un popolo nuovo, nato dalla adesione e dal sì di ciascuno a Gesù.
Notate che non si parla di doni ma di offerte, già proprio ora vengono posti sull’altare quei doni che stanno nei nostri cuori: propositi, promesse e desideri.
Preghiera eucaristica
Iniziamo ora la parte centrale e più bella della liturgia, il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce “cuore” e “culmine” della liturgia stessa, questa parte della Messa solitamente non si sottolinea troppo perché difficile e più teologica. Infatti tra poco lo vedrete: c’è una struttura molto rigida e precisa per i gesti e le parole della Consacrazione.
Come mai è una struttura così rigida? Avete mai considerato che anche le icone orientali sono tutte “uguali”?
La rigidità di una forma canonica è legata al fatto che la grande preghiera di consacrazione ci mette davanti al Mistero; compiamo il gesto di Gesù e siccome non è solo la ripetizione sciocca di ciò che Cristo fece, la sera del Giovedì della passione, non lo facciamo con la nostra consapevolezza ma con la consapevolezza di Gesù, per questo la Messa è un gesto di obbedienza vero: facciamo quello che ha fatto Lui avendo in mente che noi prestiamo la voce e i gesti ma è Lui che opera dentro di noi: si dice che in questa parte della Messa il prete agisce “in persona Christi”; è Gesù che usa di lui per compiere il suo dono. Per questo il prete potrebbe essere anche distratto o pieno di peccato ma il suo gesto è comunque valido perché lui è solo uno strumento perché un Altro agisca. Ma la comunità cristiana, l’assemblea, cosa c’entra? Non basta il prete per la celebrazione? il Concilio Vaticano II insiste sul fatto che il popolo di Dio, la Chiesa, opera insieme al sacerdote e con lui impara ad offrire sé.
La prima cosa da dire è che la preghiera eucaristica è un vero proprio dialogo tra chi presiede la celebrazione e l’assemblea, ma anche tra l’assemblea tutta e il buon Dio. Qui, lo avrete notato, il sacerdote certe volte parla per sé, altre per l’assemblea, altre a nome di tutta la Chiesa e questo ci permette di dire che la grande preghiera di consacrazione non è affare del prete … anche se certe volte ho la sensazione che questa per le persone che ho davanti sia solo la premessa della consacrazione, a cui comunque, sbagliando, non si partecipa come sacerdoti ma si assiste come semplici spettatori.
Quanta fatica in meno faremmo nelle celebrazioni se solo prendessimo sul serio le preghiere e le orazioni della Messa stessa, invece riducendola alla Consacrazione e alla Comunione perdiamo la possibilità di vivere un gesto intero e ci limitiamo a pochi minuti: la predica, la consacrazione e la comunione.
Ma di cosa consiste la preghiera eucaristica? Accenno qui alla struttura teologica poi esemplificheremo e spiegheremo ciascuna parte dei testi per facilitare le cose. Per aiutare l’identificazione metterò da principio il nome con cui quella parte viene identificata nello studio della liturgia.
Azione di grazie – prefazio
La grande liturgia di consacrazione inizia con una preghiera che ha lo scopo di rendere grazie; si chiama “prefazio” e ha lo scopo di introdurre, attraverso la lode dell’opera di Dio nella vita degli uomini, la consapevolezza che la Consacrazione non è un episodio unico e improvviso ma piuttosto rende evidente che la storia dell’uomo e del mondo è un continuo darsi di Dio alla nostra povertà.
Prima acclamazione
Consapevole della storia di Dio come di un dono sempre presente e sempre segno di misericordia, il popolo cristiano acclama la grandezza di Dio con un inno che coinvolge il cielo e chi lo abita, e la terra e chi la abita. L’acclamazione del tre volte Santo è davvero un’esplosione di lode per quello che abbiamo incontrato e vissuto nella nostra storia, per una presenza che salva. Questo ci dovrebbe sospingere a riconoscere che mentre si canta non si può non avere a mente ciò per cui si ringrazia, dove l’abbiamo visto presente.
Epiclesi
Dopo il canto del Santo, avvicinandosi il momento della consacrazione, la preghiera si fa come più greve, più riflessiva e più strutturata: innanzitutto si invoca la presenza e la forza dello Spirito Santo perché i doni umani diventino il Dono divino.
Consacrazione
A questo punto si ripete il gesto di Gesù, ripetendo le sue esatte parole. In questo momento è solo per il dono del Padre che i doni della Chiesa, il pane e il vino, divengono il Corpo e il Sangue di Gesù.
Anamnesi
Alla consacrazione fa subito eco la memoria del fatto che l’offerta di Cristo è un dono che abbraccia tutta la sua vita, il dono di sé non è un atto eroico compiuto in un istante ma piuttosto il vertice di un modo di vivere; Gesù è vissuto donandosi a noi, dandosi a noi. A questo memoriale si associa sempre l’invito alla Chiesa, quindi a coloro che sono partecipi della celebrazione, a imitare Gesù e quindi a fare della vita un’offerta.
Intercessioni
Si passa quindi, più esplicitamente, a pregare intercedendo per tutta la Chiesa, quella dei vivi e anche quella celeste, abbracciando in questo gesto di cura, anche tutti gli uomini.
Dossologia finale
La preghiera eucaristica termina con una conclusione che vuole rendere gloria a Dio, con un tono di lode e di coscienza che il dono che Gesù fa di sé è proprio la cosa più grande della vita.
Perché è stato necessario questo lungo elenco per mostrare lo schema che compone la preghiera eucaristica?
Quando penso a questa parte della liturgia mi viene alla mente una sinfonia.
In una sinfonia ci sono elementi portanti: dalla forma pubblica, per cui l’opera era fruibile in modo diverso che la musica da camera, al fatto che fosse costruita su delle tematiche chiare precise e ricorrenti, al fatto che gli strumenti fossero tutti parte della stessa costruzione e anche i solisti fossero in funzione della maggiore espressività del tema della sinfonia stessa. Spesso poi le sinfonie erano identificate per un titolo, per una suggestione contenuta in una parola che in qualche modo potesse rivelare il contenuto.
Dicevo che la preghiera eucaristica è per me una sorta di “sinfonia liturgica” per questo mi è sembrato doveroso, prima di affrontare i singoli momenti che la compongono, fare in modo che tutti ne avessimo chiara la composizione e la struttura.
Ora passeremo ad affrontare i singoli “movimenti” utilizzando come testo di riferimento la preghiera eucaristica seconda, quella più semplice e feriale. Tenete conto però che stiamo sempre affrontando un lavoro su un testo specifico mentre nel Messale trovate diverse preghiere, cerchiamo quindi di fare un lavoro che possa aiutare a evidenziare una struttura successivamente rinvenibile nei vari testi.
Il prefazio inizia con un triplice scambio di battute tra il celebrante e i fedeli (anche se in realtà sono celebranti sia i fedeli che il sacerdote che presiede); gli studiosi dicono che questo testo proviene da una antica formula rituale di origine ebraico/cristiana:
Il Signore sia con voi
E con il tuo spirito
In alto i nostri cuori
Sono rivolti al Signore
Rendiamo grazie al signore, nostro Dio
È cosa buona e giusta
La prima cosa che dobbiamo osservare è che un momento decisivo come quello della consacrazione è volutamente aperto da un dialogo perché in questo modo si richiama l’attenzione di ogni presente, e la si richiama in un dialogo tripartito perché questa insistenza possa davvero riprendere l’attenzione di ciascuno dei presenti. Non a caso la formula è di tre frasi, il numero della perfezione.
Cosa mette a tema l’inizio del prefazio, a cosa ci richiama? Alla presenza tra noi del Signore e come questa presenza in qualche modo ci attragga dandoci la consapevolezza lieta della vita come tempo da trascorrere in rendimento di grazie. È un pò come una premessa che dice: poi chiederai e dirai tutto ciò che ti urge e ti sta a cuore ma comincia con la consapevolezza che la vita è un gran bel dono perché Lui c’è ed è tra noi.
Passiamo ora al “corpo” del prefazio:
È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre, qui e in ogni luogo, a te, Padre santo, per Gesù Cristo, tuo dilettissimo Figlio.
Rendere grazie, ci dice l’inizio del prefazio, è cosa non solo giusta, ma anche doverosa ed è una spinta alla salvezza intesa come pienezza di vita qui ed ora. Se l’infinito della pienezza non mette le sue radici qui ed ora perché dovremmo perdere tempo a celebrare il dono di Gesù per noi? La salvezza che la preghiera del prefazio mette a tema non è semplicemente quella della vita eterna quanto piuttosto quella di una promessa che già ora vede iniziare il suo compiersi.
D’altra parte questo inizio è sfidante in modo diretto: ci è chiesto di renderci conto che i motivi per cui rendere grazie sono sempre di più e più grandi di tutti i nostri problemi e le nostre fatiche; il gesto della Presenza di Cristo è possibile e accade solo in un popolo che sia cosciente della grazia di essere amato!
Il rendimento di grazie poi è al Padre per mezzo del figlio, memori delle parole che Gesù disse a Filippo (GV 14): “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dobbiamo dirci che la gratitudine è a Colui che non abbiamo visto perché si è rivelato, non mostrato, attraverso ciò che abbiamo incontrato. Questo è il senso di quel “per” Gesù Cristo.
Ma la preghiera che apre la consacrazione procede oltre:
Per mezzo di lui, tua Parola vivente, hai creato tutte le cose
e lo hai mandato a noi salvatore e redentore,
fatto uomo per opera dello Spirito santo e nato dalla vergine Maria.
Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo,
egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte
e proclamò la risurrezione.
Tutta la storia umana di Gesù è quindi riletta alla luce dell’obbedienza alla volontà del Padre: Gesù è parola, mandato, fatto uomo, per compiere la volontà di Dio e acquistare a lui un popolo santo. La coscienza di ciò che è accaduto è importante perché ci mostra il destino buono e positivo per cui tutto è stato pensato per portare l’uomo alla salvezza. Nel contempo, la coscienza di ciò che è accaduto è un bellissimo testo di catechesi, quindi di teologia nel senso pieno e vero del termine: siamo richiamati a guardare a Gesù imparando in pochissime righe il suo compito e il suo scopo, senza giri di parole e senza troppe spiegazioni.
Anche qui credo valga la pena di fare una sottolineatura: non ci si può fermare a Gesù, abbiamo bisogno di riconoscere che Lui è manifestazione del Padre. Fermare la fede all’incontro con Cristo rischia di essere riduttivo, dobbiamo arrivare a Colui che ha generato nella nostra vita quel fatto.
Per questo mistero di salvezza, uniti agli angeli e ai santi,
cantiamo a una sola voce la tua gloria: Santo, Santo, Santo, …
Dato che quello che è stato detto non è una opinione ma una attestazione di fede, la parte finale del prefazio non è un chiedere la fede e neppure un dare le ragioni di quanto detto prima, è solo il constatare che pur essendo davanti a qualcosa che va oltre noi, che ci trascende, resta in noi la letizia e la gratitudine di quelli che accompagnarono Gesù dentro Gerusalemme (Mt 21) o, come cantavano i serafini nella visione del libro di Isaia (6): la Presenza è un fatto che genera gioia e letizia.
Questa parte conclusiva del prefazio viene identificata come la prima acclamazione.
Due piccole postille sul canto:
Anticamente si riteneva che il canto a Dio non fosse nella disponibilità dei credenti ma solo dei cherubini e dei serafini, gli spiriti più alti e vicini a Dio. Quindi per noi cantare questo testo non è come cantare una qualsiasi canzone. Teniamolo presente, canta chi sta alla presenza di Dio.
Secondo: talvolta qualcuno mi ha chiesto perché nella Messa spesso non canto il Santo; la ragione è presto detta: dovrebbe essere il tripudio della letizia e della gratitudine, mentre tante volte è solo una nenia che serve a dirci solo che siamo arrivati alla consacrazione; ma questo è davvero solo un gettare via la bellezza di questo momento e di questo canto di festa. Allora mi pare che le parole, se dette con coscienza, ci dicano di più e meglio delle cose fatte un po’ così.
Dopo il prefazio e la prima acclamazione la preghiera eucaristica entra nel vivo con l’epiclesi, termine che significa semplicemente “invocazione”; anticamente in Grecia Epiclesi era il termine che serviva ad invocare gli dei, era la prima parola della preghiera e precedeva il nome della divinità perché l’etimo del verbo greco era quello di un chiamare fuori, chiamare per nome.
Veramente santo sei tu, o Padre e fonte di ogni santità:
ti preghiamo santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito,
perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
La prima riga è chiamata del “vere sanctus”, dalle parole di inizio, ha lo scopo di raccordare quanto detto nel prefazio con l’epiclesi e il racconto dell’istituzione, quella riga ha in comune con ciò che la precede due sottolineature: come nel prefazio le braccia del sacerdote sono allargate nel gesto della preghiera e, secondo, la preghiera è diretta al Padre. Questa seconda comunanza con il prefazio ci dice che la possibilità della memoria liturgica è solo nel rapporto con il Padre, è Lui che dà la santità alla storia ma anche è Lui che permette che il suo Figlio si renda nuovamente presente in mezzo a noi, permettendo il compiersi del passaggio da una Presenza che è segno a una Presenza reale.
L’invocazione al Padre è perché ci conceda il dono dello Spirito Santo, un dono che nella vecchia versione del canone era reso con il concetto di effusione mentre la recente riforma del messale è resa con il termine rugiada che corrisponde di più e meglio all’immagine biblica del dono dello Spirito che cambia la terra e la rende feconda.
Durante queste poche righe il celebrante passa dal gesto della preghiera al gesto dell’invocazione: le mani unite e a palme girate verso le offerte sino al gesto della benedizione delle offerte stesse. Bastano poche righe per riconoscere che tutto è dato e che solo nel nostro donarlo c’è compimento di noi e di ciò che offriamo, proprio come per il ragazzino che offre i suoi pochi pani e i suoi pesci.
Comincia ora la parte centrale della preghiera eucaristica e dell’intera Messa: il racconto della istituzione o consacrazione.
L’origine delle parole pronunciate dal sacerdote è il vangelo, i testi sinottici sono pressoché concordi nel riportare queste parole di Gesù, evidentemente con lievi sottolineature e differenze ( Mt 26, 26-28. Mc 14,22-24. Lc 22, 19-20). Mentre il primo racconto di una celebrazione eucaristica è attribuibile a san Paolo che ne scrive in 1 Cor 11,23-25, un testo che non ha la pretesa di nulla se non di correggere un modo sbagliato di vivere la celebrazione, in questo modo san Paolo ci attesta una prassi già consolidata.
Egli, consegnandosi volontariamente alla sua passione, prese il pane, rese grazie,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse:
Prendete e mangiatene tutti:
questo è il mio Corpo
offerto in sacrificio per voi.
Allo stesso modo, dopo aver cenato,
prese il calice, di nuovo ti rese grazie,
lo diede ai suoi discepoli e disse:
Prendetene, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio Sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me.
Tre sono le sottolineature che possiamo fare di questo testo:
contiene la sottolineatura del dono di sé per cui la salvezza portata da Gesù non è un dono parziale, per quanto grande, ma la totalità di sé; nessuno mai ci ha fatto un dono simile e nessuno mai potrà farci un dono tanto grande. Questo però mi fa dire che divenendo discepoli di Cristo abbiamo ricevuto in dono la capacità di fare quello stesso dono. Così quelle parole non sono più solo contemplazione commossa ma anche domanda di saper amare sino al dono di sé.
La seconda sottolineatura è legata a ciò che si dice alla consacrazione del vino/Sangue: “per la nuova ed eterna alleanza”; la bibbia è la continua ripresa di questo tema: il popolo che tradisce e Dio che lo cerca di nuovo per stabilire un’alleanza, un patto di amicizia e di aiuto che porti reciproci vantaggi. Nel sangue di Gesù si stabilisce un patto che non potrà mai essere infranto, neppure di fronte al male più grande: il rifiuto di Dio. Questo ci fa rendere conto immediatamente della portata del gesto di Gesù: dopo questo fatto nulla più ci può separare dall’amore di Cristo. Non solo Gesù si dona tutto a me, ma lo fa per sempre!
Terza sottolineatura mi pare sia legata a quel “fate questo in memoria di me”. Non abbiamo altro scopo nella vita che ripetere il gesto più grande che abbiamo visto compiere, dove il ripeterlo è la memoria di Cristo non un ricordo del Suo gesto più importante; la memoria è qualcosa di molto più grande del ricordo, si tratta del veder riaccadere oggi quello che accadde duemila anni fa: è la stessa cosa.
Ma cosa accadde duemila anni fa? Che Gesù durante la sua ultima cena consegnò ai suoi amici il pane e il vino mutati nella sua carne e nel suo sangue pur avendo mantenuto le loro specie fisiche (si chiama transustanziazione). Il gesto di Gesù che noi ripetiamo non è per nulla un simbolo ma è esattamente ciò che accadde, questo per noi è molto importante perché è la certezza della Sua presenza.
Vediamo ora di soffermarci brevemente sui gesti: innanzitutto il pane e il vino vengono presi e mantenuti sopra l’altare, il senso di questo gesto è da una parte letterale, nel racconto evangelico Gesù consacra pane e vino tenendoli in quel modo, a me piace anche pensare che sia il modo con cui accade quel rendimento di grazie. Poi il sacerdote si inchina leggermente sulle offerte, questo è un gesto molto semplice e diretto: non è più il prete che opera ma lo Spirito Santo, per questo il sacerdote che celebra non interessa più, è solo uno strumento che compie ciò che Gesù vuole compiere oggi. Chinarsi sulle offerte è un gesto simbolico e per questo l’inchino non è profondo, se lo fosse sarebbe già un gesto di adorazione che rimetterebbe al centro il ministro che adora.
Infine al termine delle due frasi di consacrazione il celebrante presenta al popolo l’ostia consacrata e lo stesso fa per il vino, perché tutto il popolo possa adorare l’opera di Dio. Ha sempre il significato dell’adorazione anche la genuflessione del prete verso le due specie consacrate. Prima adora il popolo e poi il sacerdote. Questo indica che nella cena eucaristica prende senso la figura del sacerdote: è colui che dona al popolo di Dio la Sua presenza, ma è anche colui che permette al popolo di poter adorare Cristo nell’Eucarestia.
Dentro questi gesti ci sono diversi spazi di silenzio; come riempirli? Due sono le possibilità o con la recita di preghiere che ci siano d’aiuto nel vivere la Presenza vera e viva di Gesù, si tratta quindi di compiere dei veri atti di adorazione, per quanto “istantanei”, i più grandi come me ricorderanno di aver avuto qualche nonna che insegnava a dire delle giaculatorie; oppure uno si mette a pregare ricordando tutte le persone e le situazioni che ha a cuore: io a tutte le Messe prego per certi volti e per certe situazioni, chiedendo che siano per la crescita della fede e della Chiesa tutta.
La consacrazione del pane e del vino termina con un annuncio e con una risposta perché l’assistere a un fatto così imponente e unico non può non far prendere posizione:
Mistero delle fede
Annunciamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione,
nell’attesa della tua venuta
Quello che il sacerdote proclama è un annuncio che spiazza, o almeno dovrebbe: quello che avete visto accadere davanti ai vostri occhi non è solo un fatto, è un mistero che si può vedere e toccare ma che non si riesce a spiegare nella sua interezza. Come allora vivere qualcosa che non possiamo sino in fondo capire? Non è una cosa impossibile e fuori dalla nostra portata?
La risposta dell’assemblea all’annuncio del celebrante è davvero uno spettacolo di sintesi dove sono attraversati passato (la morte) presente (la risurrezione) e futuro (la venuta): quello che possiamo fare per vivere il mistero è continuare a tenerlo davanti ai nostri occhi per poter vivere alla luce di esso. Che dono grande e immenso quello della Chiesa che ci rimette costantemente nella condizione di poter vivere ciò che proclamiamo nella fede.
A questo punto cosa accade? La preghiera eucaristica prosegue con l’anamnesi/offerta, due sottolineature legate insieme nella struttura della preghiera eucaristica, perché il ricordo di ciò che si è visto non può non generare sempre, come logica conseguenza, il dono di sé.
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio,
ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza,
e ti rendiamo grazie
perché ci hai reso degni di stare alla tua presenza
a compiere il servizio sacerdotale.
Celebrando la Messa adempiamo a un compito: “fate questo in memoria di me” e nello stesso tempo rispondiamo alla nostra personale esigenza di ricordare, di rendere nostro, ciò che ci è accaduto nella vita: l’incontro con Gesù; il desiderio è quello che tutto si conformi a quel nostro legame.
Ma cosa significa che offriamo al Padre quello che gli abbiamo appena chiesto di consacrare come corpo e sangue di Cristo? Letta così sembra una cosa un po’ strana e particolare: chiedi a uno un dono e poi glielo offri? La ragione anche qui è nella logica del gesto, Gesù dona sé stesso per obbedienza al Padre, quel Corpo e Sangue sono contemporaneamente un segno pieno di amore a noi, alla nostra salvezza, ma anche un segno della comunione piena tra persone della Trinità, per cui il Figlio non ha altro interesse che compiacere il Padre.
Quindi noi “restituendo” al Padre il Corpo del suo Figlio dato per noi compiamo il gesto di chi dice: so che è per me ma so anche che è tuo. Tuo dono e tuo sacrificio.
Nel contempo aggiungiamo, con la traduzione nuova più fedele al testo latino, che rendiamo grazie per il fatto di poter stare davanti a quella Presenza non solo riconosciuta ma fatta carne e sangue.
Un rendimento di grazie che è pieno perché per compiere questo gesto ci è dato di essere sacerdoti, infatti in forza del Battesimo noi siamo tutti concelebranti, il sacramento della nostra infanzia si compie pienamente come servizio a Cristo e alla Chiesa.
Se penso a quante volte ho detto queste parole quasi senza nemmeno ascoltare ciò che andavo dicendo! Ogni sospiro di questa liturgia meriterebbe spiegazioni adeguate per poterci gustare ciò che tutti i giorni si compie come Mistero.
Nella seconda preghiera eucaristica molto spazio è preso dalle preghiere di intercessione: innanzitutto si prega per l’unità dei credenti: come uno che prende coscienza di ciò che gli è capitato, meglio di ciò che ha fatto, subito si trova addosso il desiderio di poter raccontare e condividere ciò che ha visto, con la coscienza che la comunione e l’unità sono un dono e non la conseguenza di un fatto, per quanto eclatante. Noi possiamo assembrarci, per usare un termine noto in questo tempo di pandemia, ma non è la stessa cosa dell’essere uniti, l’unità è appartenersi reciprocamente, è arrivare a riconoscere che per vivere abbiamo bisogno dell’altro.
Ti preghiamo umilmente:
per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo
lo Spirito Santo ci riunisca in un solo Corpo.
La seconda intercessione è chiesta per la Chiesa tutta, sia per quella “militante”, quella dei vivi, sia per quella “trionfante”, quella che ha concluso il proprio cammino terreno e ora vive della pienezza della vita in Cristo.
Alcune piccole riprese: la nuova formula del rito ci dice di aggiungere al Papa e ai vescovi anche i presbiteri e i diaconi perché il sacramento dell’ordine è diviso in questi tre gradini, metterne uno saltando gli altri due sembra riduttivo del sacramento stesso. La seconda osservazione da fare è che l’idea di perfezione per la Chiesa non è l’assenza di errore ma piuttosto la vita nell’amore, questo ci porta subito a dire che se questa preghiera vale per la Chiesa tanto più deve valere per ogni singolo credente, per ogni cristiano.
Ricordati, Padre, della tua Chiesa
diffusa su tutta la terra:
rendila perfetta nell’amore
in unione con il nostro papa N.,
il nostro vescovo N.,
i presbiteri e i diaconi.
C’è poi una seconda supplica di intercessione che comincia con un “ricordati” che mi pare un gesto di estrema tenerezza e confidenza verso il buon Dio, infatti a me che sono smemorato capita spesso di sentirmi dire da chi mi vuol bene quello stesso “ricordati”. Ciò che ricordiamo a Dio attraverso Gesù presente nell’Eucarestia è che non trascuri i defunti, né quelli che credono, che hanno la “speranza della risurrezione”, né di tutti i defunti.
A questo punto una nota particolare sulla modifica apportata al testo della preghiera; fino alla fine dello scorso novembre veniva detto: “e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza” perché si può ben immaginare che un defunto possa vedere la realtà delle cose e che non avendo creduto in vita ora si possa affidare alla clemenza di Dio. Solo che questa visione dei defunti che non credono e che per questo chiedono clemenza al cospetto di Dio ad alcuni sacerdoti “creava difficoltà” e per questo è stato scelto di cambiare questa immagine, un pò forte, con la frase che viene detta ora nelle intercessioni della preghiera eucaristica. Metto in evidenza questa cosa sia per dire la verità oggettiva e umana di ciò che potrà accedere anche a noi giunti di fronte al buon Dio ma anche per il gesto delicato e materno della Chiesa che cambia il testo di una preghiera solo perché chi la recita possa farlo con tranquillità; la preghiera prima che un testo dogmatico resta così una invocazione che sale a Dio dal cuore.
Ricordati anche dei nostri fratelli e sorelle
che si sono addormentati
nella speranza della risurrezione,
e, nella tua misericordia, di tutti i defunti:
ammettili alla luce del tuo volto.
Di noi tutti abbi misericordia:
donaci di aver parte alla vita eterna,
insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
san Giuseppe, suo sposo,
gli apostoli, sant’Ambrogio, [san N.: santo del giorno o patrono]
e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi,
e in Gesù Cristo tuo figlio
canteremo la tua lode e la tua gloria.
La preghiera eucaristica si conclude con la “grande dossologia”, che significa grande preghiera di lode, preghiera fatta elevando a Dio e mostrando al popolo le specie eucaristiche, come dicendo al buon Dio un enorme grazie per quello che si è compiuto, come un bimbo che si volge ai genitori mostrando con orgoglio il suo disegno: “guarda” è tutto ciò che sa dire, senza aggiunta di altre parole. Un disegno, quello che si compie nella Messa, che accade per le nostre mani ma che non siamo noi a rendere possibile. D’altro canto il gesto del sacerdote è anche un fatto mostrato al popolo che sta celebrando, anzi più che mostrato è offerto; mi torna in mente la consacrazione “per voi e per tutti”, con il suo gesto il sacerdote ricorda a tutti che lo scopo dell’essere lì è il partecipare del Corpo di Cristo.
Dal punto di vista delle parole che si dicono in questo momento metto in luce la grande ed evidente insistenza della Chiesa sulla triplice formula cristologica: lo facciamo “per” Lui perché ce lo ha chiesto, lo facciamo “con” Lui perché l’Eucarestia non è frutto dell’opera della Chiesa ma sacrificio e dono di sé che accade in una cena, in un gesto di comunione e di intimità ed è un gesto compiuto “in” Lui perché da soli non potremmo rendere bianco o nero un solo capello.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te Dio Padre onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.
Nella celebrazione gli “amen” che diciamo sembrano sempre dei contorni, dei gesti di assenso vuoti di ogni altro significato, un po’ come mettere le ciliegine su una torta che un altro ha confezionato; qui si tratta di un assenso che non è formale: il prete ha parlato a nome della Chiesa e a nome di Cristo, e con questo “amen” la chiesa mostra di aver compiuto il suo compito di concelebrante asserendo con quella paroletta che ciò che è avvenuto è per opera della sua volontà. Mi piace ribadire, perché di fronte ai miei limiti lo penso sempre, che se anche il celebrante fosse distratto o addirittura indegno del gesto che sta compiendo, è la presenza della Chiesa, con la sua fede, che rende comunque valido il gesto.
Per questo in alcune celebrazioni eucaristiche questo amen è cantato in modo molto solenne.
Non si tratta quindi solo di un intervento del popolo per chiudere la preghiera eucaristica ma è piuttosto un modo per evidenziare la sua decisiva e imprescindibile partecipazione.
Amen.