INDICE
- Premessa
- Introduzione
- Riti di Introduzione
- Liturgia della Parola
- Liturgia Eucaristica
- Riti di Comunione
- Riti Conclusivi
- Conclusioni
- Bibliografia per approfondire
Riti Conclusivi
I bambini anche piccoli sanno bene quando sta per concludersi la Messa, o per i canti o perché c’è il prete seduto in silenzio o perché vedono che le persone fanno la Comunione, comunque sia anche noi spesso ci accostiamo all’ultima parte della Messa sapendo che, almeno psicologicamente, siamo un po’ come atleti che vedono la fine della competizione, si tratta spesso di arrivare alla fine. Non succede solo ai bambini di vivere l’ultima parte della Messa nell’attesa dell’uscita dalla Chiesa.
E se da una parte tutto questo può anche risultare comprensibile dall’altra non possiamo ridurre questi ultimi attimi a una formalità. Anche in questi ultimi momenti può accadere che Lui si renda presente e incontrabile.
Sono quattro le parti che compongono i riti conclusivi della Messa, che, se ci fate caso, sono la ripetizione a rovescio dei riti di inizio, le elenco: gli avvisi, il saluto e la benedizione del sacerdote, il congedo dell’assemblea e il bacio dell’altare.
Cominciamo con gli avvisi, so che qualcuno avrà già pensato: “ma gli avvisi nella mia chiesa si danno prima dell’orazione!”, osservazione vera e giusta ma che ha una ragione pratica: si evita in questo modo di far stare le persone in piedi, specie quando il momento degli avvisi si protrae; questo “stare comodi” nasce sì anche da una attenzione alle persone ma sopratutto dal “bisogno” di un supplemento di attenzione perché gli avvisi stessi non siano trascurati.
Forse qualche purista della celebrazione si potrà chiedere che nesso c’è tra la liturgia eucaristica e la vendita dei fiori o l’appuntamento per le persone della terza età con merenda annessa; la domanda è lecita ed ha una spiegazione semplicissima: continuare nella vita ciò che si è appena celebrato. Quando si fa un incontro vero ci viene spontaneo chiedere quando potrà ripetersi, la Chiesa raccoglie questo desiderio e non si limita a dirci: si ripeterà alla prossima celebrazione ma ci dice, sfidandoci, che l’incontro con Gesù continua nella vita che ci educa. Gli avvisi sono proprio questo: indicarci una strada che ci educa alla fedeltà.
Eccoci quindi al saluto e alla benedizione del celebrante. Il saluto, che abbiamo già considerato nei riti di introduzione, se compare all’inizio come augurio ora diviene richiamo: adesso il Signore davvero è con te, nel tuo cuore; questo ci fa guardare alla nostra celebrazione come a una sorta di cambiamento ontologico, cambiamo dentro, perché ora il Signore è con noi. Dire questo ha una enorme portata sia come coscienza di noi sia soprattutto come senso del cammino: a noi, che abbiamo sempre la preoccupazione di cambiare, il vero cambiamento accade perché accogliamo Lui come dono dentro la vita. Non c’è nulla da compiere o meritare, dobbiamo solo imparare a dire il nostro sì con la radicalità del buon ladrone che chiede il paradiso.
Che cosa aggiungono i tre Kyrie del rito ambrosiano che si dicono subito dopo il saluto del sacerdote? Sono la coscienza del dono ricevuto: “Tu che ti sei donato a me abbi pietà della mia miseria.” Sarà un esempio banale, ma credo che come aiuta me possa aiutare anche voi: è quello che mi accade quando ospito in casa una persona di riguardo, a cui voglio bene, sono così lieto e commosso di quella visita che mi imbarazza anche una piccola cosa lasciata in giro. E per quel piccolo particolare mi vergogno e chiedo scusa. Magari dimenticando che se quella persona è lì non è per la casa ma per me.
Chiedere scusa anche alla fine della Messa è da una parte un gesto davvero fuori luogo perché Gesù si dona senza calcoli e senza dover mostrare meriti, dall’altra è la bellezza di una liturgia umana e non solo divina, un luogo dove l’uomo è dentro tutto per intero, con la coscienza di una povertà che rimane.
Sulla benedizione potremmo dire moltissime cose, in questo la Bibbia è il riferimento reale e autorevole, quello che ricordo dai miei studi remoti è che una benedizione data non può essere tolta e che solo un sacerdote può benedire in nome e per conto di Dio. Con il vangelo di Luca ricordo che la benedizione è da dare sempre a chiunque, anche a chi ci perseguita, perché anche costui è strumento. Il segno della benedizione prima di Cristo era una imposizione delle mani o una semplice parola, con Gesù il segno della benedizione è la croce stessa in quanto segno della salvezza, la vera benedizione della nostra vita. Anche qui si percepisce subito e in modo evidente che allora la benedizione non è un gesto di speranza, un dire bene, quanto piuttosto compiere un gesto che ci ricorda che l’incontro fatto ha il pregio di averci dato una certezza nella vita che nessuno può più strapparci di dosso; abbiamo bisogno di ripetere questa cosa perché ce ne scordiamo e riprendiamo un istante dopo a vivere schiacciati dai problemi della vita e non partiamo più da quel fatto che ci ha dato salvezza.
Quando nelle feste più importanti riceviamo la benedizione solenne è chiarissimo che le parole che vengono dette sono la conseguenza del rapporto con Lui, quello che vorremmo veder fiorire dalla certezza di quella salvezza sperimentata nuovamente.
Il congedo dell’assemblea al termine della Messa è una delle cose che più mi rendono orgoglioso del rito ambrosiano. Nel rito romano la formula di congedo è l’arcinota “ite, missa est”, “andate, la Messa è finita”, formula che dice sia la conclusione che il mandato (missa è derivato da mittere cioè mandare) e da sempre i liturgisti come anche i poveri parroci si devono arrovellare per far capire, attraverso formule talvolta arzigogolate, che la Messa continua come impegno di testimonianza nella vita cercando quindi di rimettere insieme due cose che sono mostrate come distinte, per colpa di una virgola. In tutto ciò il rito di Ambrogio è molto più agile e perciò privo di equivoci: “andiamo in pace”, dove l’invito ad andare non permette di mettere in secondo piano la forza della benedizione appena ricevuta, benedizione che è il vero mandato, e da cui ciascuno prende la via per casa e per la vita. Nel contempo dobbiamo sempre ricordare che la parola pace è, nella liturgia, il sinonimo di Cristo, perché “Cristo è la nostra pace” (Ed 2,14). Il congedo ambrosiano: c’è un legame che ci accompagna e che ci consente di non essere mai soli, è l’inizio della missione.
L’ultimo atto della celebrazione è il bacio all’altare. Si tratta per il sacerdote e per i concelebranti di un gesto di saluto ma innanzitutto di un gesto di profonda gratitudine e tenerezza, come si bacerebbe la persona amata. Quello che vi è accaduto rende l’uomo certo del suo destino e pieno dello Spirito che fa desiderare una vita piena e grande per tutti.
Quindi come potrebbe allontanarsi il celebrante se non con un gesto di saluto così?
Se ricordate abbiamo iniziato con un’antica preghiera della liturgia siriaca, provate a riprenderla e vedrete come, e se è cambiata la coscienza con cui la recitate.
Rimani in pace o altare santo e divino del Signore:
non so se tornerò o non ritornerò a te.
Mi conceda il Signore di rivederti
nella celeste assemblea dei santi.
E su questo patto (del Signore)
Io ripongo la mia fiducia.
Rimani in pace altare santo
e propiziatorio,
e il corpo santo
e il sangue del perdono
che da te ho assunto
siano per me espiazione dei delitti
e remissione dei peccati
e per sempre motivo di fiducia
davanti al terribile trono di Dio.
Rimani in pace altare santo
e mensa di vita
e implora per me misericordia
dal Signore nostro Gesù Cristo,
perché da questo momento
e per sempre possa conservare
il tuo ricordo.
Amen