La Messa

Riti di Comunione

I riti di Comunione della Messa sono la logica conseguenza del vedere compiersi il Mistero di Gesù che si dona a noi. L’esigenza di “fare la Comunione” viene per tutti dal fatto che l’Eucarestia è una offerta che ci è fatta e quindi volersi comunicare è un desiderio che viene come frutto.

Sarebbe però troppo semplicista e riduttivo che immediatamente dopo la preghiera di consacrazione si facesse la Comunione. Diverse e articolate sono le sottolineature che hanno lo scopo di farci essere coscienti del dono che stiamo per ricevere.

In fondo per partecipare a un Matrimonio non è sufficiente il desiderio… e neppure l’invito, occorre prepararsi in ogni particolare per essere all’altezza e soprattutto per mostrare quanto noi abbiamo capito l’importanza di quell’invito.

Nel rito ambrosiano il primo gesto che si compie dopo la preghiera eucaristica è il silenzioso perché non introdotto, spezzare il pane, un gesto semplice e importante, che fa passare il luogo della celebrazione da altare sacrificale a mensa fraterna, a luogo del banchetto, punto di incontro e di Comunione. Anticamente tutti portavano il pane per la Messa e quindi lo spezzare il pane era un gesto che chiedeva un po’ di tempo affinché il prete potesse spezzare in piccole parti tutti i pani, e quindi nell’attesa l’assemblea cantava. L’idea più evidente era quella di “ingannare l’attesa”; in realtà il canto era già un modo per iniziare a dire la lode e la meraviglia per quel dono che si faceva cibo e bevanda. Poi si passò a un gesto più essenziale dove pane e vino messi a disposizione per tutti e così il gesto del cantare durante la frazione del pane divenne simbolico per via del poco tempo ormai impiegato. Da questo deduciamo che il canto allo spezzare del pane non ha un valore necessitante nella struttura della celebrazione, si tratta essenzialmente di un retaggio.

Ma perché il sacerdote compie questo gesto? Evidentemente la prima risposta che ci dobbiamo dare è che questa indicazione è contenuta nelle parole stesse di Gesù nell’ultima cena: “prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro”, così ci racconta l’evangelista Luca (22,19). Ma ancora meglio potrebbe essere prendere in considerazione l’episodio del discepoli di Emmaus raccontato in Luca 24: i due apostoli che erano sconsolati e tristi riconoscono Gesù in quello sconosciuto viandante per quel gesto di spezzare il pane. Questo ci fa sottolineare che per riconoscere Cristo non bastano nemmeno le sue parole e neppure la corrispondenza che Lui suscita in noi, occorre un gesto che ce lo sveli. Senza vedere un frutto per noi credere anche in ciò che abbiamo visto resta sempre difficile.

Dopo aver spezzato il pane il sacerdote lascia cadere dentro il calice un frammento della particola appena spezzata, i liturgisti la chiamano commistione (immixtio), perché si compie questo gesto? Due sono le sottolineature che possiamo fare a questo proposito: innanzitutto ricordo una spiegazione suggestiva e anche antica, circa IV secolo, quella del “fermento”. Nella chiesa primitiva il Papa come segno di comunione mandava ai sacerdoti che non potevano celebrare con lui un pezzetto del suo pane consacrato e i sacerdoti mettevano questo frammento dentro al calice affinché tutto fosse “fermentato” e divenisse un unico pane.

In secondo luogo, questo gesto ricorda a tutti noi che il corpo di Gesù è uno solo, fatto di carne e sangue, come è per ogni corpo. Mi stupisce sempre a questo proposito che nei miracoli eucaristici che conosciamo le analisi della carne e del sangue rivelano sempre questo legame: sono carne e sangue dello stesso corpo.

Prima di procedere oltre chiedo a me e a voi se questo spezzare il pane, se questa commistione che fermenta, non è il momento vero della nascita della carità tra cristiani e con tutti gli uomini. Mi pare sia importante mettere in luce questa cosa perché si comprenda che la carità non è un’aggiunta che viene un attimo dopo la Messa, una pia conseguenza, ma nasce dentro la celebrazione, ne è parte, non può esserci celebrazione che non porti alla carità.

Il primo grande gesto di Comunione che si compie dentro la celebrazione eucaristica è la recita della preghiera del Padre nostro. Vediamo di addentrarci un momento in questo gesto.

Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento osiamo dire:

Potremmo prendere queste parole come una semplice introduzione, una sorta di richiamo che possa attirare l’attenzione della gente che magari si è un pò stancata; in realtà quello che pare essere un semplice e crudo invito alla preghiera è molto importante perché in due mezze frasi mette in luce la ragione per cui diciamo il Padre nostro come inizio del gesto della Comunione.

Innanzitutto siamo obbedienti alla parola di Gesù che ha detto “quando pregate, dite:” (Lc 11,2.) un’obbedienza che però non è un comando a cui ci si inchina ma una richiesta che risponde a una domanda: “Signore insegnaci a pregare”. Quindi la prima sottolineatura di questa introduzione è come una domanda: ma tu che cosa hai da chiedere? Perché la Comunione non è solo un ricevere ma anche un dare, tu dai a Gesù ciò che sei, anche la tua povertà, e lui ti dà se stesso. Solo così accadrà che la preghiera del padre nostro non sia una semplice obbedienza o peggio una formula che si ripete.

La seconda cosa che traspare fermandoci alle parole dell’invito alla preghiera è che questo pregare è per noi forma convincente non tanto perché ci è stato detto ma sopratutto perché ci è stato insegnato, cioè abbiamo visto Gesù pregare e questo ci persuade sulla bellezza e verità della cosa che ci è proposta e chiesta. Pregare come Gesù non è solo chiedere delle cose, che ci stanno a cuore e che ci sono care, ma è il primo modo per incominciare ad essere come quel Gesù che da la vita facendosi alimento per noi.

Essere cristiano non è innanzitutto fare i gesti di Gesù ma è un essere come lui, è avere il suo cuore. 

La preghiera del Padre Nostro non dovrebbe avere bisogno di spiegazioni, anche perché, come è avvenuto anche per il significato della Messa, Papa Francesco ci ha fatto sopra un ciclo di catechesi del mercoledì, come anche il catechismo della Chiesa Cattolica ha una intera sezione dedicata alla preghiera che Gesù ci ha insegnato.

Per questo ora ci limitiamo a un breve commento che possa re introdurci alla preghiera che Gesù ci ha insegnato. Sant’Agostino in una lettera a Proba dice che il Padre Nostro è il compendio di tutte le preghiere contenute nella Bibbia (Epistulae, n.130); san Tommaso, il solito preciso, aggiunge che non solo nella preghiera del Signore sono contenute tutte le cose che possiamo desiderare ma che esse sono anche poste nel giusto ordine, “così che questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti” (Summa theologiae, II-II, q. 83, a. 9).

Tutto ciò non fa altro che rafforzare in me la consapevolezza che la preghiera del Padre Nostro è lo strumento per imparare a pregare. Quindi anche solo per raccogliere la provocazione di questi due giganti della fede proviamo a guardare dentro questo scrigno prezioso che troppe volte trattiamo come un vecchio baule.  

Normalmente la preghiera viene divisa in sette parti, e tenendo presenti quelle andrebbe recitata anche come assemblea; talvolta ritmo e tempi della preghiera corale sono proprio lasciati alla libera e sentimentale interpretazione.

1. Padre nostro, che sei nei cieli,

2. Sia santificato il tuo nome,

3. Venga il tuo regno,

4. Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.

5. Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

6. E rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,

7. E non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.

Amen.

Facciamo ora passare brevemente le sette parti della preghiera di Gesù.

Ci troviamo innanzitutto di fronte a una premessa che è già cuore della preghiera mentre è contemporaneamente la via per capire tutte le altre affermazioni. Immediatamente dopo questa premessa ci sono tre affermazioni che definiscono il rapporto con Dio, e tre richieste che sono frutto di quello stare davanti a Lui. La preghiera termina con la formula rituale di assenso.

Uno. Che si cominci a pregare dicendo “Padre” non è cosa del tutto scontata, basti pensare allo stridore che sembra venire dalla definizione, usata fino a poco più di mezzo secolo fa: “chi è Dio?”, contenuta nel catechismo di Pio X, la cui relativa risposta non era “è Padre” ma  piuttosto “Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra”. Se poi aggiungete che è oltre duemila anni fa che ci fu insegnato a chiamare Dio con il nome di Padre, avete davvero materiale sufficiente per stupirvi di quell’appellativo.  

La scelta di questo inizio è tutta piena della tensione a mettere in luce che la preghiera è una modalità di rapporto con quell’amore che ci costituisce, che ci fa essere. E Gesù dicendoci che la prima parola per pregare è Padre ci rivela che la coscienza di questo rapporto mette nell’atteggiamento della preghiera.

Un Padre che è “nostro”, il che non significa possesso di una certa entità ma che non è “mio”, dire “nostro” è dire che è Padre di ogni uomo non solo di quello che lo prega, che lo cerca o che desidera incontrarlo; posto il fatto che Dio è il Creatore quell’essere Padre è valido per ogni creatura.

“Che sei nei cieli” non è l’idea della lontananza ma piuttosto quella della presenza: se sei anche la dove non ci sono gli uomini allora sei davvero dove sta l’uomo, ogni uomo. Allo stesso modo possiamo attestare che se sta nei cieli è altrettanto reale e possibile che stia nei cuori di ogni uomo. Così il sublime si fa incontrabile.

Due. Santificare il nome di Dio è una esigenza propria di ogni uomo che lo ha incontrato; la bellezza e la verità di quello che ho visto e sentito mi fanno vivere rendendo grazie per ciò che ho visto; vorrei che tutto il mondo potesse gioire della mia stessa gioia per la Sua presenza nella mia vita. 

D’altra parte chiedo che sia santificato il nome di Dio, che al tempo di Gesù non si poteva né pronunciare né conoscere. Come faccio a non pensare a una cosa astratta? Santifico una presenza che nella mia vita ha assunto un nome e un cognome, santifico Dio e la sua presenza nella mia vita santificando la strada che mi ha portato e mi porta a lui. Questo non vuol dire fare Dio quella forma di Lui che ho incontrato ma piuttosto che quella forma è la molla che mi fa dire quanto è grande Dio. Lo posso santificare perché lo chiamo per nome e quel nome rende carne l’esperienza che faccio, un nome che non dice tutto, come ogni nome, ma che mi fa amare il suo manifestarsi in ogni forma in cui Lui si possa presentare.

Tre. “Venga il tuo regno” è un’altra cosa naturale da chiedere quando si hanno gli occhi e il cuore pieni di fatti e di doni che dicono continuamente che sei amato: come non si può desiderare che tutto sia dentro quel rapporto, che tutta la vita di tutti gli uomini possa essere riempita della stessa verità. Ma cosa è il regno di Dio? Sbrigativamente san Paolo dice: “Cristo tutto in tutto” (1 Cor 15,28) dove il Regno è quindi considerato come la permanenza di Gesù. Qui mi pare che sia sottesa la preghiera che possiamo non essere noi ad essere fedeli perché sarebbe impresa altamente improbabile mentre si suppone che sia Lui a esserci sempre, in tutto.

Quattro. Ci manca solo che tocchi a noi concedere al buon Dio di fare ciò che desidera! Quando diciamo “sia fatta la tua volontà” chiediamo innanzitutto di poter essere in grado saper accettare ciò che è voluto per noi; ma come si vede bene questa parte della preghiera viene solo dopo la parte in cui si desidera che il suo amore sia sempre evidente e presente nella vita degli uomini, fino a diventare il modo concreto di vivere, il Suo regno è la via per desiderare di dire sì alla Sua volontà. Altrimenti tutto si trasforma in uno sforzo che, prima o poi, lascia senza fiato e senza ragioni.

Resta quindi una cosa chiara: se vogliamo accettare la volontà di Dio sulla nostra vita la strada non è quella della volontà che si adegua quanto piuttosto quella di un cuore che desidera sempre più vivere l’incontro fatto.

Cosa che del resto ci è accaduta ogni volta che abbiamo fatto esperienza della pienezza del dire sì all’amore di Dio.

A questo punto la parte restante della preghiera, le prossime tre frasi, sono un porre davanti a Dio le cose che ci urgono per vivere, la cosa che ci urge di più, cioè sono il metodo concreto per vivere la nostra figliolanza, ciò che serve davvero per vivere l’incontro che abbiamo fatto. Come se si dicesse: “Voglio vivere sempre più l’amicizia con te e tutto alla luce dell’amore che hai per me, ora però dammi gli strumenti che mi possono permettere di compiere questo mio desiderio”.

Cinque. Perché chiedere il pane quotidiano è la prima delle cose da domandare per vivere sempre più l’amicizia con Cristo? È davvero la prima cosa di cui abbiamo bisogno? Tenete poi presente che il vangelo ci dice in più occasioni che il Signore sa di cosa abbiamo bisogno prima ancora che gli chiediamo ciò che serve, quindi perché si comincia dal pane? Credo che la cosa si possa spiegare meglio dalla più grande tentazione che abbiamo: la distrazione; appassionati all’amicizia con Cristo sul momento daremmo tutto per Lui, poi il tempo e la nostra fragilità ci portano a ridurre sempre più fino a dimenticare ciò che ci è accaduto. Come possiamo restare tesi a ciò che abbiamo incontrato? Non distraendoci, cioè scegliendo di avere solo ciò che è essenziale, ciò che davvero serve, il “pane quotidiano” appunto. Avere il pane è avere ciò che serve per non distrarci, se nell’abbondanza, e per non cercare altrove, se nell’indigenza.

Ma cos’è il pane? Da sempre la Chiesa vede nel pane di cui parla Gesù il pane eucaristico e la vita di tanti santi ci racconta che davvero la Messa è l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno; resta il fatto che non per tutti è già così, spesso abbiamo bisogno anche del pane terreno e magari di un pane che ci permetta di camminare verso Gesù. Quindi direi che se in assoluto il pane che chiediamo nel Padre Nostro è il pane che è il Corpo di Gesù allora credo possa essere compresa nel significato più largo del termine pane anche la Chiesa: un luogo dove incontrare e nutrirci della Sua presenza, una compagnia che sia cibo all’anima.

Sei. La seconda reale richiesta del Padre Nostro è quella della remissione dei peccati. Chiediamo il perdono non tanto per lo scandalo e il fallimento del peccato quanto piuttosto per il desiderio di un amore sempre più grande e vero. O chiediamo perdono per un senso di giustizia o chiediamo perdono per un Amore tradito. Come abbiamo bisogno del pane abbiamo bisogno immenso della misericordia di Dio che torni a raccattare la nostra povertà.

“Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”, credo possa essere letta così la seconda parte di questa richiesta: l’esperienza della misericordia a sé diventa origine di uno sguardo di misericordia ad ogni uomo su questa terra, una misericordia piena di fiducia e di certezza nella radice buona dell’uomo, di ogni uomo. Noi perdoniamo senza condizioni come Dio con noi, o almeno chiediamo di esserne capaci, è questo il senso di quell’“anche” che è stato introdotto nella recente riforma del Messale: è Dio che perdona e noi vorremmo saper fare la stessa cosa di Dio.

Sette. “E non abbandonaci alla tentazione” è la nuova traduzione che sostituisce il “non indurci in tentazione” di cui ormai da anni si chiedeva la sostituzione perché formula che poteva far credere l’impossibile, cioè che Dio stesso mettesse l’uomo nella condizione di essere tentato mentre la tentazione è figlia della incoerenza umana, della sua fragilità spesso neppure colpevole ma solo distratta. Oppure la tentazione è un’opera del Nemico, il Diavolo, che cerca di prenderci a sè attraverso la nostra povertà.

Cosciente di tutto questo, il credente prega che la tentazione non sia tolta, saremmo angeli e non uomini, ma piuttosto che sia una battaglia combattuta con lo sguardo rivolto a Dio piuttosto che nella sola confidenza di sé.

“Ma liberaci dal male”; a questo punto la domanda che conclude la preghiera che Gesù ci ha insegnato è davvero impegnativa per il nostro rapporto con il buon Dio, un po’ come fece Abramo con il conto alla rovescia dei giusti di Sodoma e Gomorra (Gn 18,20-33); osiamo chiedere che possiamo essere liberati dal male, cosa apparentemente impossibile per delle creature, perché il male sta nel concetto stesso di creatura, ma dono possibile a Dio da cui lo imploriamo non per non sbagliare più ma semplicemente per vivere una vita simile alla Sua. Davvero chiedere la liberazione dal male è un osare; che Lui compia quello che la natura non può.

Resta infine da sottolineare che essere liberati dal male non vuol dire debellarlo, saremmo in paradiso, quanto invece renderci capaci di viverlo volgendolo in strumento della nostra crescita e amicizia con Lui.

Mi è sempre sembrato strano dire questo “Amen” alla fine di una preghiera che ho recitato perché mi parrebbe che non si debba dare assenso a una cosa appena detta, “se non mi stava bene nemmeno la dicevo” ho sempre pensato. Poi mi sono soffermato a considerare che in effetti anche quando firmo un contratto dò tutti i miei dati e poi per dire che ci sto devo ancora firmare, se poi sono in una banca mi ritrovo alla festa delle firme per dire sì a una cosa che io ho chiesto.

Quell’amen ha la caratteristica di dire il cuore mentre prima avrei potuto essere totalmente formale e aver recitato delle parole vere ma da persona distratta.

Nel contempo dire amen coincide con il dire che quello che desidero prevalga nella mia vita è la Sua volontà e non quello che nell’istante desidero o penso, per quanto possa essere giusto e buono.

Concludo dicendo che non spendo altre parole per sottolineare invece che se questo è un primo gesto di Comunione reale con Dio e tra noi allora fare la fatica di compiere gli stessi gesti piuttosto che di restare insieme nella recita delle parole sono segni esteriori di una disposizione del cuore e di una attenzione a tutta l’assemblea.


Dopo la preghiera del Padre Nostro il sacerdote continua la preghiera a nome di tutti i presenti quasi “specificando” di che cosa si tratta quando diciamo: non abbandonarci alla tentazione e liberaci dal male; questo primo momento di esplicitazione della preghiera del Padre Nostro è composto di tre passi legati a tre termini a me davvero cari: pace, misericordia e speranza. Tre termini che descrivono la mia vita e il desiderio che ho sul futuro; la pace è quello che mi è accaduto, la misericordia è ciò che chiedo perché i miei errori e i miei tradimenti mi sono sempre più chiari davanti agli occhi e infine speranza perché vivo della promessa che un giorno si potrà compiere in pienezza quella pace che mi è stata promessa. 

“Liberaci da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni” ciò di cui abbiamo bisogno è che la nostra vita sia alleggerita dalla fatica, innanzitutto quella del non riuscire a guardare a Lui, perché la pace che cerchiamo non è quella della tranquillità ma quella dell’essere in Lui, come mi capita spesso di ripetere: il riposo che desideriamo, magari inconsapevolmente è quello di chi si ri-pone, di chi si ri-posa in Lui. Questa è la nostra pace. Pace di cui abbiamo tutti certamente avuto un assaggio tutte le volte che in una determinata situazione ci siamo sentiti a “casa”, senza il bisogno di dover andare o essere da un’altra parte.


“E con l’aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento”, ancora una volta il cristiano non si può fermare al desiderio perché sa che non può compiere da solo ciò che di buono e grande desidera; invocare la misericordia di Dio è chiedere di poter vivere all’altezza del proprio desiderio. Domandare questo però è possibile innanzitutto se si ha coscienza del proprio limite e del proprio continuo tradimento. Mi pare molto bello anche il fatto che si chieda non solo di essere liberati dal peccato ma anche dai turbamenti, da tutto ciò che preoccupandoci ci distrae, come dire: “visto che posso chiedere chiedo tutto”, segno questo di una preghiera che è anche una confidenza e non un semplice dialogo.


“Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”. La speranza che anima la vita non è la felicità né la riuscita, ciò che riempie la vita di chi ha incontrato Cristo-pace è solo di poterlo incontrare di nuovo e di nuovo perché nella Sua presenza c’è sia il compimento che la riuscita. Su questo però credo si debba aprire una questione: davvero è questo che desideriamo? Perché tanto spesso ci accontentiamo di avere un pò di tranquillità o di serenità come se dovessimo accontentarci. Questo ci accade quando spegniamo la lampada della memoria e ci accontentiamo del buio e della tristezza.


A questa preghiera di esplicitazione del sacerdote, l’assemblea risponde con una invocazione che è una vera e propria lode a Dio: “tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli”. Proclamare che il regno sia del Signore significa riconoscere che tutta la vita gira attorno alla Sua presenza, che tutto dipende dalla Sua volontà; sostenere poi che di Dio sia anche la potenza è dire che può compiere ciò che desidera e vuole; chiudere dicendo che Lui ha anche la gloria è sostenere che solo Lui può essere continuamente ringraziato per il suo amore a noi, al mondo. Interessante che anche qui si usi una formula tripartita per dire una lode perfetta.


Il celebrante dopo aver pregato a nome di tutti per chiedere la pace prosegue con la preghiera che invoca da Dio l’unità; le due preghiere sono di fatto lo svolgimento di un unico pensiero interrotto dall’intervento dell’assemblea che abbiamo appena preso in considerazione, una interruzione che non ha solo lo scopo di non dare luogo a dei monologhi, che avrebbero il solo risultato di distogliere l’attenzione, l’intervento del popolo è un intercalare che ci fa rendere conto che davvero il prete è la voce della comunità che prega.

Il testo che consideriamo ora è nella, nella sua prima parte, una ripetizione di quanto già chiesto, mentre nella seconda si aggiunge la nuova richiesta: oltre la pace chiediamo l’unità.

“Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà”. Un frutto della pace è l’unità; mentre noi continuiamo a pensare che l’unità sia frutto esclusivo della buona volontà, ma non basta andare d’accodo per poter dire di essere uniti. A questo proposito si potrebbero aprire diverse riflessioni sul tema dell’unità, io mi soffermo su una cosa che in questo tempo mi colpisce molto: il pericolo è quello di pensare all’unità come a una sorta di omologazione, un accordo perfetto su ogni cosa mentre invece l’unità è sempre nella diversità e nella specificità di ciascuno; questo significa che essere uniti è amare la fisionomia e la storia dell’altro come se fosse la mia. Io parto sempre dal fatto che la mia storia è la più bella e la più vera, che ho ragione sul modo di dire di sì a Gesù e che chi fa altro in fondo sbaglia. Capite che così sono davvero bello distante da quell’unità per cui prego ad ogni Messa.

Davvero ci sta, come dicono i giovani, che si chieda che accada tutto secondo la Sua volontà, infatti la mia volontà è sempre carica di buoni propositi ma sempre imperfetta.


A questo punto, specificato quale pace e unità desideriamo, ce le doniamo scambievolmente: “la pace e la comunione del Signore nostro Gesù Cristo siano sempre con voi”. Innanzitutto va notato che la formula di questo saluto è più articolata delle solite: abbiamo l’aggiunta della “comunione” e la formula per esteso del nome di Gesù, quindi una cosa ufficiale. Perché lo evidenzio? Perché questo invito del sacerdote così espresso non è più un pio desiderio o un augurio, una formula rituale ma assume il tono del gesto concreto che il celebrante compie: allarga le mani verso l’assemblea e poi le ricongiunge, come chi porge qualcosa e poi ha le mani vuote. 

Come sarebbe utile vivere questi istanti percependoli come gesti che già in qualche modo fanno accadere ciò che avverrà nella pienezza fisica dell’assumere il corpo di Gesù. Non si tratta solo di un anticipo ma di un fatto che sta già accadendo e che culminerà di lì a poco nella sua forma piena.

Un’ultima nota: “la Pace sia con voi” è il modo di salutare proprio del Vescovo, che si rifà a San Paolo: “Cristo nostra pace” (Ed 2,14), questo per evidenziare ancora di più che la preghiera che si sta compiendo è al Padre perché ci conceda la piena comunione con il Figlio.


A questo punto il celebrante genuflette, poi prende l’ostia e, tenendola sollevata sulla patena o sopra il calice, dice:

Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo.
Beati gli invitati alla cena dell’Agnello.

Il cambiamento del testo non è un cambiamento; semplicemente si è tradotto il testo latino così come è sempre stato da dopo la riforma voluta dal Concilio Vaticano II; una scelta quella di cambiare, che è stata giustificata non solo dal desiderio di adeguamento ma anche dal fatto che in questo modo torna ad essere in primo piano chi è Gesù e qual è lo scopo del suo dare sé stesso per noi, poi viene indicata la grazia che è data a coloro che sono invitati alla santa cena, grazia evidenziata dall’uso di una citazione del testo dell’Apocalisse (Ap 19,9). In realtà la citazione corretta avrebbe avuto una specificazione che si è tralasciata: “alla cena di nozze dell’Agnello”, ma si è preferito omettere questa parola credo per non spingersi troppo in là con un paragone che non sarebbe stato, ai più, immediato nel suo significato.

Attenzione a una cosa concreta: il celebrante mostra l’ostia consacrata e lo può fare insieme al calice del sangue di Gesù oppure no. Perché questo? Il corpo di Gesù non è carne e sangue? A questo proposito credo vada sempre tenuta presente la sottolineatura per cui ogni frammento dell’ostia contiene tutto il corpo di Cristo come ogni goccia del Suo sangue contiene tutto il suo corpo. Potremmo semplificare: la parte per il tutto.


Alle parole del celebrante risponde l’assemblea tutta, quindi anche il celebrante, perché ciò che si dice ora riguarda tutti, anche se a celebrare fosse il Papa:

O Signore, non sono degno 
di partecipare alla tua mensa, 
ma dì soltanto una parola 
e io sarò salvato.

La formula usata ha indubbiamente una struttura penitenziale: non penso che tu sia un dono grande che io non merito ma so, per la conoscenza e coscienza che ho di me, che non merito il dono del Tuo corpo e del Tuo sangue; per questo chiedo che sia Gesù stesso a farmi dono di sé perché se fosse uno scambio io dovrei andarmene a mani vuote.

Il fondamento biblico di queste parole lo riconosciamo: sono le parole del centurione di Cafarnao in Matteo (Mt 8,8). Evidentemente con queste parole ci accostiamo al dono di Cristo con la consapevolezza che sia il dono che il poterlo accogliere sono una grazia che non viene da noi.


A questo punto il sacerdote celebrante si comunica, assumendo prima il corpo e poi il sangue di Gesù, e mentre si comunica inizia il canto alla Comunione; da questa indicazione si dovrebbe dedurre che il solista che intona o il coro che canta si comunicheranno successivamente mettendo così in luce che il momento della Comunione del celebrante è come il ricostituirsi della Comunione piena tra Gesù e il suo popolo. 

A proposito della Comunione eucaristica due piccole sottolineature: nel Concilio Vaticano II, il documento che si occupa della liturgia, dice che per partecipare perfettamente alla Messa si raccomanda la partecipazione al corpo e al sangue di Cristo dei fedeli presenti (SC n° 55). questo significa che partecipare alla Messa senza fare la Comunione non è vivere pienamente il Sacramento; d’altra parte quanti miei confratelli sacerdoti si lamentano perché la gente va a Messa e fa la Comunione senza confessarsi se non molto di rado. Come risolverla? Quando fare o non fare la Comunione? Semplicemente rispondo che non si deve fare la Comunione quando la si fa per abitudine: sarebbe molto grave sciupare un dono così grande e totalmente immeritato. L’altra condizione posta alla partecipazione alla Comunione è quando si è in peccato grave, cioè quando si è davvero rotta, scientemente e volutamente, l’amicizia con Dio, allora lì non si può fare la Comunione perché il dolore stesso del nostro peccato dovrebbe esigere da noi che si corra prima a confessarsi.

La seconda piccola sottolineatura che faccio è legata alla Comunione sotto le due specie; a me piacerebbe che tutti, sempre, potessero fare la Comunione comunicando al corpo e al sangue di Gesù, sarebbe il segno della partecipazione al banchetto dell’ultima cena e non solo un gesto di Comunione, sarebbe prendere parte per intero al Mistero di Gesù che dice “fate questo”. La praticità ci impedisce di fare questo gesto che però sarebbe davvero molto bello, almeno in alcune feste più importanti.


Dopo che il sacerdote celebrante si è comunicato comincia a comunicare tutti coloro che lo desiderano. Ad ogni singola persona che si accosta all’altare il sacerdote ripete: “Il Corpo di Cristo”, una affermazione che è anche un appello a riconoscere ciò che si accoglie, mentre il comunicando risponde “Amen”. Ciò che mi piace di quell’Amen è l’avere in mente che nel testo dell’Apocalisse è uno dei nomi che Dio attribuisce a sé stesso (Ap 3,14). Dicendo il nostro Amen non stiamo solo dando un assenso con un gesto di fiducia ma ci impegniamo a riconoscere che in quel piccolo pezzo di pane c’è l’Infinito che cerchiamo.

A questo proposito dico sempre che tra qualche anno, quando sarò in pensione, proverò e scrivere due libri, uno sull’antipatia di Gesù (dal Vangelo talvolta esce davvero uno più orso di me), e uno sulle cose buffe che accadono a Messa, il primo esempio che farò sarà quello della signora che all’acclamazione: “il Corpo di Cristo” mi risponde educatamente “Grazie” e poi cerca di comunicarsi attraverso la mascherina. Davvero il modo con cui facciamo le cose dice il livello di consapevolezza che abbiamo, e non lo dico moralisticamente ma per mettere ancora più in risalto che davvero quello che ci fa Gesù è un dono così immenso che comprende anche la nostra ingratitudine, non si ferma nemmeno di fronte alla nostra distrazione!

A questo proposito una notazione pratica, altrimenti andiamo troppo per le lunghe, sulla fatica di alcuni a ricevere l’Eucarestia nelle mani. Posto che, in condizioni normali, la Comunione la si può ricevere sia nel palmo della mano sia in bocca, vorrei solo far notare una cosa, non esageriamo a demonizzare le mani e il loro uso, certo le mani di un laico non sono state consacrate come quelle di un sacerdote ma è anche da tenere presente che le mani sono tra le opere più spettacolari e perfette che il buon Dio ha realizzato per ciascuno di noi, secondo me il Signore non deve essere troppo felice se guardiamo alla sua opera solo come a una cosa indegna e sporca, Gesù come segno d’amore lava i piedi ai suoi discepoli, la cosa più sporca e impura. Come solito credo che ci si debba dire che il problema non è tanto il gesto ma la consapevolezza con cui lo si vive.

Che cosa porta alla mia vita il fare la Comunione? 

Riconoscendo che lì, nella Comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, c’è la fonte della vera vita  metto in luce alcune conseguenze:

La prima cosa che sempre mi richiamo è che nel gesto del comunicarci noi ci stringiamo in un rapporto sempre più stretto con il buon Dio, ma anche tra noi; non è possibile fare né la Messa né la Comunione per sé e basta, dal gesto di Gesù nasce la Chiesa e dal mio nutrirmi di Lui nasce la mia appartenenza alla Chiesa. Noi non ci saremmo mai incontrati senza il dono di Cristo al mondo. Quanta coscienza e gratitudine per la mia storia nascono dal partecipare del Corpo di Cristo! Alla Comunione la mia testa si riempie sempre di volti e non di parole, quei volti sono il segno che Lui c’è e opera ancora.

Questo mette in luce una seconda sottolineatura: Lui entra nella nostra vita come noi nella Sua, “Chi mangia la mia carne e beve il mio Sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56 ). Fare la Comunione non ci dà solo un’amicizia più grande ma ci rende “Cristofori”, portatori di Cristo, e questo mi pare sia il senso profondo della missione: portare l’annuncio di Cristo al mondo è portare noi stessi, in quanto portatori di Cristo; questo mi pare sia un passaggio da avere sempre presente come frutto del comunicarsi. Anche questo essere pieno di Lui è di una bellezza struggente perché hai coscienza del tuo limite e insieme vedi che Lui ti sceglie non solo per volerti bene ma anche per arrivare ad altri. In questo capisco che l’essere colui che “distribuisce” il Corpo di Cristo ai suoi fratelli è un dono. 

Una terza sottolineatura su cui mi piace soffermarmi è relativa al “sangue sparso per molti in remissione dei peccati” (Mt 26,28), fare la Comunione in qualche modo mi purifica dal mio essere peccatore e fragile e mi ridona la consapevolezza di quanto sia bello poter ricominciare sempre.


Quando il sacerdote dopo aver distribuito l’Eucarestia torna all’altare pone le particole avanzate nel tabernacolo, la cosiddetta “riserva eucaristica”. Luogo segnalato a tutti con la lampada rossa che perennemente richiama la Presenza di Cristo e nel contempo fonte di conforto da cui viene attinto il “viatico”, la presenza eucaristica portata a tutti coloro che attraversano una “valle di lacrime” fatta di malattia, sofferenza e dolore perchè il loro cammino sia più saldo e il piede più certo con la consolazione della presenza di Gesù e la compagnia della Chiesa.


Sistemato l’altare, perché dopo ogni banchetto si riordina, il sacerdote ritorna alla sua sede per un momento di silenzio. Un momento per me assai prezioso e chiesto esplicitamente dal messale come momento di ringraziamento e lode per il dono ricevuto. Durante questo momento si possono eseguire dei canti a condizione che tengano presente la natura di questo momento che non è per chiedere e riflettere ma per dire una gratitudine. Tutte le volte che mi siedo quindi mi scatta una domanda: di cosa ringrazi? Così ti accorgi che ogni Messa è diversa dalla precedente, e non smetti mai di vedere che la frase del vangelo o una preghiera o un gesto sono il modo semplice con cui riscopri ciò che desideri e vale.


Terminato il silenzio il sacerdote si alza e invita l’assemblea alla preghiera.

Da questo “preghiamo” e sino alla uscita della chiesa è tutto come all’inizio della Messa ma fatto al contrario. Come a dire che fine e inizio sono parte di un ciclo che chiede di essere sempre ripetuto e collegato perché questo dà consistenza al cristiano e alla Chiesa.

Dopo l’invito del sacerdote viene lasciato un momento di silenzio prima che venga recitata l’orazione; come all’inizio il silenzio prima dell’orazione iniziale era perché ciascuno identificasse e mettesse davanti a Dio la propria domanda, ora il silenzio serve perché ciascuno possa dire formalmente e personalmente il proprio grazie per il dono ricevuto; poi il sacerdote con la preghiera raccoglie tutte queste lodi e ne fa una che contenga il ringraziamento dell’intera comunità.


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